Prima di finire crudelmente relegata alla voce “kitsch”, con conseguente condanna all’oblio da parte della critica snob, Pat Benatar è stata a lungo una delle cantanti più amate e talentuose del rock americano. Come interprete e performer, anzitutto, ma anche attraverso una serie di canzoni che, in bilico tra hard-rock, Aor e pop, hanno rappresentato una felice stagione creativa, contribuendo a rilanciare un modello femminile aggressivo e vincente, in un ambiente storicamente maschilista. Una striscia positiva lunga circa una decade, tra la fine dei 70 e la seconda metà degli 80, segnata idealmente dai vari Grammy portati a casa (quattro consecutivi per la “migliore interprete rock femminile” dal 1980 al 1983, più la nomination altre quattro volte nel 1985, ‘86, ‘88 e ‘89 – un record senza precedenti), cui ha fatto seguito una brusca fase discendente, che ha contribuito a minarne la fama, almeno al di fuori dei confini nazionali. Perché negli Stati Uniti resta tuttora immutato il suo status di star, pluri-omaggiata e introdotta anche nella Long Island Music Hall of Fame nel 2008.
Una polacca a New York
Patricia Mae Andrzejewski nasce a New York (10 gennaio 1953) da padre polacco e madre irlandese. La sua carriera sarà in gran parte legata al secondo marito, il chitarrista Neil Giraldo, ma per uno strano scherzo del destino il cognome con cui passerà alla storia sarà quello dell’uomo con cui era convolata in prime nozze, Dennis T. Benatar. Un matrimonio di breve durata, finito al ritorno nella Grande Mela dopo un’esperienza a Richmond (Virginia) a metà tra impiegata in banca (di giorno) e cantante da night-club (di notte).
Nel mezzo dei 70 Pat non sa ancora bene cosa fare da grande. Ha sì studiato canto (anche lirico) seguendo le orme materne, ma dopo il diploma alla Lindenhurst High School (1971) ha perso tempo, indecisa sul da farsi. Prosegue, comunque, una faticosa gavetta nei locali. E nel 1977 riesce finalmente a fare centro.
L’occasione è una gara per cantanti dilettanti organizzata dal club Catch a Rising Star, New York. Pat esagera e si presenta mascherata come uno zombie, con un costume simil-Halloween di un personaggio del B-movie “Cat-Women Of The Moon”. Scherzo o provocazione, fatto sta che, incredibilmente, funziona. Forse per merito di una voce prepotente che non poteva passare a lungo inosservata.
Complici anche un jingle per la Pepsi Cola e alcune performanceal Tramps di New York, l’industria discografica si accorge di lei: Terry Ellis, boss della Chrysalis, la ingaggia senza pensarci un attimo. A completare la svolta che le deciderà la carriera, arrivano anche le nuove nozze con il succitato Neil Giraldo, con il quale Pat stabilirà un solidissimo legame artistico e sentimentale (da lui avrà anche due figlie, Haley e Hana).
Pat e la sua band suonano un sano hard-rock senza fronzoli. Duro e irruento, ma non troppo. Perfetto per sfondare in classifica, nell’America del 1979.
L’attacco nerboruto del drumming di "Heartbreaker" è l’introduzione ideale a questo rock bionico, in cui brilla la sua voce cristallina, tanto “pulita” nelle tonalità acute, quanto ruvida e sensuale in quelle più profonde. Un canto così spavaldo da essere esibito perfino a cappella oppure accompagnato solo dal rimbombo della batteria, ma che trova alla fine nelle scorribande chitarristiche di Giraldo il suo più fedele alleato. Il testo, invece, è il primo dei tanti tumulti sentimentali che verranno: “Your love is like a tidal wave, spinning over my head”. Tanto per mettere in chiaro subito le cose.
Un singolo-bomba, insomma, che schizza subito al n.23 dellechart Usa, trascinando l’album d’esordio, In The Heat Of The Night, e riuscendo quindi nell’impresa fallita dai due 45 giri precedenti: la cover country-rock di “I Need A Lover” (John Cougar Mellencamp) e l’agrodolce ballad “If You Think You Know How To Love Me”.
Con un’irruenza di scuola punk, filtrata dalle pose sornione di una Debbie Harry (vedi anche la sensualissima copertina), Pat Benatar stende il pubblico, alternando scudisciate e carezze come una consumata mistress. “We Live For Love” è l’estasi sensuale, in guanti di velluto: una tesa ballata di sussurri e feedback maligni, sapientemente guidata dal canto della Benatar, che denota tutta l’ampiezza del suo range, inclusa un’attitudine “operistica” sconosciuta alla stragrande maggioranza delle cantanti rock. Si rivelerà l’altro hit, piazzandosi anch'esso tra i primi 30 della classifica. Altrettanto sinuosa è “In The Heat Of The Night”, che si snoda “notturna” anche nei suoni, ovattati e torbidi, con un basso pulsante e un bell’assolo centrale di chitarra. Sono forse i pezzi più vicini allo stile deiBlondie, un riferimento che resterà cruciale nella carriera di Pat, che si cimenta anche nella scrittura dei testi per il midtempo "My Clone Sleeps Alone" (un‘ode contro l’omologazione del modello female-rocker) e per il rock’n’roll sfrenato di “So Sincere”.
Completano il quadro altre due cover – una più trascurabile, "Rated X" di Nick Gilder, l’altra più incisiva, "Don't Let It Show" degli Alan Parsons Project – mentre “No You Don’t” (originariamente scritta per gli Sweet) mostra gli artigli della rocker femminista nell’episodio forse più heavy del lotto.
Grazie anche alla sapiente mano di Mike Chapman - già al fianco di Blondie e The Knack - che si alterna alla console con Peter Coleman, la miscela di In The Heat Of The Night si rivela esplosiva: approderà al 12º posto e conquisterà il primo di una serie di dischi di platino, imponendo la Benatar come nuova stella del firmamento rock.
La guerra dei sessi
Non c’è tempo da perdere, e nell’estate del 1980 è già pronto il nuovo Lp, Crimes Of Passion. Se nell’esordio se n’era intravista qualche traccia, qui la “guerra dei sessi”, che resterà un classico della produzione di Pat, esplode in tutto il suo furore. Ne è il manifesto ideale l’ouverture “Treat Me Right”, scritta dalla stessa Benatar: un ultimatum a tutta ugola, sotto uno strato di incandescenti feedback. “One of these days you're gonna reach out and find/ The one that you count on has left you behind/ Don't want to be no martyr, I know I'm no saint”, è la minaccia, di fronte alla quale l’unica alternativa è aprire gli occhi (“Open your eyes, maybe you'll see the light”), ponendo fine ai tentennamenti tipici della viltà maschile (“You want me to leave, you want me to stay/ You ask me to come back, you turn and walk away/ You wanna be lover, and you wanna be friend”). Rivendicazioni che tornano altrettanto aspramente su “You Better Run”, dove tra assoli sempre piùheavy di chitarra, Benatar sfodera un’altra invettiva contro l’amato, mescolando rancore e passione: “I can't stand your alibis, you tell me lies, drive me wild, yeah”. Una sorta di attrazione perversa e fatale, per la quale l’unica ricetta è mettere in fuga il partner: “You better run, you better hide, you better leave from my side”.
Irrompe sulla scena, dunque, una Pat guerriera, che non rinuncia però a mostrare il suo volto più sensuale (e, invero, un po’ volgarotto) in “Hit Me With Your Best Shot”: un rockaccio sporco e lascivo, trascinante nel suo corredo di chitarre in fiamme, seppur in sé piuttosto convenzionale: sarà però il suo primo singolo a entrare nella Top Ten, vendendo oltre 4 milioni di copie nei soli Stati Uniti.
L’apice del disco è invece un’altra, infuocata performance, ispirata a Pat dalla lettura di una serie di articoli sul New York Times riguardo gli abusi sessuali sui bambini negli Usa. “Hell Is For Children” è uno dei saggi della sua potenza vocale, un tour de force sapientemente condotto tra momenti riflessivi ed esplosioni, ben supportate dai lancinanti solo chitarristici e da una implacabile sezione ritmica. Un ensemble che mostra tutto il suo affiatamento anche nel reggae-rock di “Never Wanna Leave You”.
Il resto dell’album presenta episodi trascurabili (“Prisoner Of Love”, “I’m Gonna Follow You”, “Out-A-Touch” esercizi di buon mestiere e nulla più) ma anche una buona (e misconosciuta) cover rock della “Wuthering Eights” di Kate Bush, che mette in mostra una volta di più un talento vocale superiore.
Crimes Of Passion non è un passo avanti rispetto all’esordio, mostra semmai una maggior consapevolezza nell’uso della voce e un più solido affiatamento col gruppo. Ma l’America ne è entusiasta e si innamora perdutamente di Pat vedendo in lei quasi una Springsteen al femminile. Nel gennaio 1981 l'album si issa al 2º posto della chart Usa (dietro a “Double Fantasy” di John Lennon), dove resterà per 93 settimane, e un mese più tardi la cantante newyorkese vince il suo primo Grammy Award, nella categoria Best Female Rock Vocal Performance.
Rolling Stone la immortala in copertina con una celebre foto di Annie Leibovitz, che la ritrae in una sua tipica mise dell’epoca (pantaloni di pelle attillati e maglietta a righe), truccatissima e avvinghiata al suo chitarrista, nonché ormai autore di fiducia. E anche la nascente Mtv le tributa un onore non da poco: “You Better Run”, infatti, sarà il secondo video trasmesso nella storia dell’emittente, subito dopo “Video Killed The Radio Star” dei Buggles (agosto 1981).
Resta però ancora da conquistare la vetta assoluta delle classifiche. Compito portato a termine dal terzo album,Precious Time (1981), che resterà anche l’unico della sua discografia ad aver conosciuto l’ebbrezza del primato, oltre che il primo a spopolare anche sull’altra sponda dell’Atlantico (n. 30 nelle Uk Chart).
La prodezza si chiama “Promises In The Dark”, una insinuante cavalcata rock che parte pianissimo, con l’intro sussurrata in punta di voce, e si infiamma nel ritornello, con chitarre ruggenti e un drumming tempestoso ad assecondare il climax. Dal vivo diventerà un cavallo di battaglia, incendiando letteralmente la platea. A spopolare è però soprattutto “Fire And Ice”, forte di un’altra robusta impalcatura rock, con basso pulsante sugli scudi, a supportare la strepitosa interpretazione vocale e l’apertura melodica del refrain: le varrà il secondo Grammy Award, sempre nella categoria Best Female Rock Vocal Performance, nel 1981.
Oltre ai due hit, Benatar scrive anche l’ambiziosa “Evil Genius”, un pezzo piuttosto lontano dai suoi canoni, dove gli inserti di fiati e le chitarre imbastiscono a tratti una sorta di “mini-suite” strumentale, forse non pienamente riuscita, ma certamente intrigante.
Calligrafica, rispetto anche alla versione di Siouxsie And The Banshees, ma tutto sommato dignitosa la cover di “Helter Skelter” dei Beatles, mentre il soft-rock della title track si tiene a galla su un ritornello appiccicoso e su un’altra brillante prova vocale (con qualche eco di Chrissie Hynde). Altrove, invece, si scade apertamente in un bolso hard-rock da Fm (“Just Like Me”, “Hard To Believe”, “Take It Anything You Want It”).
Non giova a questi brani una produzione un po’ troppo piatta e levigata, che comprime la furia strumentale e attutisce il pathos.
Le ombre della notte
Ma se proprio certi vizi in sede di produzione riflettevano i limiti di alcune operazioni anni Ottanta, l’approccio di Pat era rimasto quello di una tigre rock dei Seventies. Nel 1982, in piena febbre new wave, era giunto il momento di cambiare. Nelle interviste che precedono il nuovo album, la cantante newyorkese fa sapere che non ha alcuna voglia di finire ingabbiata negli stereotipi da hard-rocker, aggiungendo che ora preferisce tastiere melodiche di stampo wave alle chitarre metalliche e hard. Il cambio di rotta è suggellato visivamente da una copertina tipicamente wave, che la ritrae con scarmigliata acconciatura eighties e sguardo allucinato su sfondo bianco. E anche il titolo dell’album, Get Nervous, non fa che attingere a un immaginario nevrotico già saccheggiato da nugoli di waver.
Serve però un brano che dia un senso all’operazione, che rischia di apparire insincera, se non proprio posticcia. “Shadows Of The Night” assolve pienamente al compito e va oltre, rivelandosi (forse) il capolavoro di un’intera carriera. Un’apertura ad effetto, che ti spara in faccia subito il ritornello solo-voce, poi quel muro poderoso di chitarre e il drumming che alza il ritmo, quindi il bridge, declamato con piglio epico, acuendo allo spasimo il pathos, con le fatidiche tastiere che reggono il gioco, fino al ritorno trionfale del ritornello, ora sostenuto da tutti gli strumenti e seguito dall’immancabile solo chitarristico di Giraldo. L’enfasi sul suono non è lontana da certe coeve produzioni di Jim Steinman, l’uomo che farà la fortuna dell’alter ego britannica della Benatar, Bonnie Tyler. È la canzone perfetta, quella che amalgama in modo ideale lo spirito autenticamente rock di Pat e la sua evoluzione più melodica degli anni Ottanta. Volerà al n.13 delle chart Usa e le varrà un nuovo Grammy per la miglior performance vocale rock del 1982.
Questo strano ibrido hard-wave funziona in parte anche su “Anxiety” - quasi una pantomima isterica alla Lene Lovich su strati di tastiere luccicanti, con chitarre più contenute ad assecondare un cantato, al solito, magistrale – sull’accattivante “Looking For A Stranger” (con un ritornello incisivo e qualche bel tappeto di tastiere tra le scariche un po’ grevi delle chitarre) e sulla ancor più melodica “Fight It Out”, dove i momenti morbidi e i cori soffusi segnano un ulteriore avvicinamento a quel soft-pop-rock che caratterizzerà i dischi successivi (ma l’assolo di chitarra non si fa desiderare neanche qui). Un’evoluzione che non risparmia neanche la nuova scenata di gelosia di “Tell It To Her”, dove l’ennesimo partner disonesto viene esortato a farsi compatire dalla sua sprovveduta amante (“She believes you, just like I did at the start/ When you wrapped up my heart, and played with my emotions”) che non conosce la sua parte oscura (“She don't know the darker side of you”).
Le unghiate rock’n’roll di “The Victim” e “Silent Partner” confermano, però, che la grinta degli esordi non è venuta meno. Quel che manca a brani di questo tipo, così come, sul versante più melodico, a episodi come “Little Too Late” e “I’ll Do It”, è una scrittura che vada al di là del solito mestiere, che riesca a piazzare il guizzo o il cambio di marcia.
In ogni caso, la svolta melodica paga: Get Nervous raggiunge il n.4 delle classifiche Usa e inanella il quarto disco di platino consecutivo.
La video star
Pat è ormai una celebrità, nonché una video star, grazie al nuovo clip di “Shadows Of The Night”, che la vede nei panni (improbabili) di operaia in una fabbrica di tondelli e di aviatrice di caccia al fianco degli allora semi-sconosciuti attori Judge Reinhold e Bill Paxton, in una spy-story ambientata nella Seconda guerra mondiale.
A suggello di questo magic moment, Pat Benatar pubblica il suo primo disco dal vivo, Live From Earth (1983) che fotografa due anni di un fortunatissimo tour, che l’ha confermata interprete vibrante e performer ad alto tasso di sensualità, grazie anche alle sue mise provocanti e aggressive. Nella veste live, i suoi successi acquistano ulteriore ritmo e vigore, accentuando la loro carica adrenalinica. Merito anche dell’ormai rodatissima band, che dimostra sul palco una potenza di fuoco considerevole.
Ma a far brillare il disco è anche un inedito, registrato in studio e piuttosto distante dal clima ruvido del live. Si chiama “Love Is A Battlefield” e porta la firma di un abile cesellatore di hit come Holly Knight, insieme a Mike Chapman. Il tema è il solito, quello dell’amore-campo di battaglia, dove uomini e donne si scontrano quotidianamente, ma il respiro è quello romanticamente epico del decennio: “We are young, heartache to heartache we stand/ No promises, no demands/ Love Is A Battlefield”. E, musicalmente, la canzone è una bomba. Sarà per la produzione, raffinatamente avvolgente in pieno stile eighties, sarà per il refrain-killer o per l’ennesima prodezza vocale, incorniciata in una morbida intelaiatura dance-pop, ma “Love Is A Battlefield” mette d’accordo tutti: fan della prim’ora, cultori di sonorità sintetiche 80 e generici appassionati di pop-rock. Quel motivetto struggente, sussurrato, a squarciagola o perfino fischiettato nel finale, diventa quasi un inno del decennio. Merito anche di un fortunato videoclip, in cui Pat, splendida trentenne, retrocede ad adolescente in fuga da casa e sprofondata in un laido night-club per uomini, nel quale capeggia una ribellione femminile con tanto di ballo di gruppo à-laMichael Jackson.
“Love Is A Battlefield” si rivelerà il più grande successo di Pat Benatar, conquistando la vetta della Billboard's Mainstream Rock Tracks e della chart australiana, il n.5 della Billboard Hot 100 e il n.17 anche in Gran Bretagna. Inevitabile, quindi, il quarto Grammy consecutivo per la Best Female Rock Vocal Performance nel 1983.
L’altro inedito di Live From Earth, “Lipstick Lies” - firmato da Giraldo con il batterista Myron Grombacher - è un altro pop-rock à-la Blondie di buona fattura, corredato dall’immancabile videoclip fantasioso.
Nell’era glamour per eccellenza, mentre Madonna inizia a sgomitare armata di crocifissi e lingerie, e uno stuolo di sexy-popstar si accinge a sfruttare Mtv con il look e il fisico ancor prima che con la musica, Pat Benatar dimostra di poter competere ad armi pari anche in questo campo. Con, dalla sua, qualità vocali e grinta da performer sconosciute a gran parte delle rivali.
L’indubitabile ammorbidimento del suo sound, però, rischia di tradursi in perdita d’identità nel successivo album Tropico (1984). La nenia esothic-pop del singolo “We Belong”, infatti, si trascina stancamente tra tastiere plasticate e coretti soffusi, disperdendo buona parte della carica selvaggia degli esordi (ma sarà l’ennesimo hit, con tanto di n. 5 negli Usa e immancabile Grammy). Non va molto meglio con l’altro 45 giri, “Ooh Ooh Song” (l’unico che porta anche la sua firma), calato in scanzonate atmosfere swing-blues sixties, sposando l’andatura spigliata e i coretti festosi a tastiere piuttosto asettiche.
Anche i brani che restano a metà strada tra nerbo rock e patinatura pop (“Diamond Field”, “Temporary Heroes” “Outlaw Blues”, “A Crazy World Like This”) mostrano la corda, testimoniando un pericoloso smarrimento creativo.
In questo panorama di mediocrità, svetta come una felice eccezione la stupenda ballata “Painted Desert”, introdotta dagli insistiti arpeggi acustici del prologo strumentale, e guidata con maestria dai vocalizzi di Pat tra le sue sinuose curve melodiche: un numero d’alta classe, che testimonia come la carriera della rocker newyorkese si sarebbe potuta tranquillamente evolvere anche sul versante della canzone d’autore, a patto che fosse riuscita a trovare le giuste penne.
Tropico segna, dunque, un passo indietro rispetto agli standard pop-rock raggiunti all’inizio del decennio, faticando anche nelle classifiche, dove non va oltre un comunque dignitoso 14º posto.
Armistizio (e riscossa)
Quando nell’autunno del 1985 esce il nuovo album, Seven The Hard Way, lo stupore si allarga anche ai testi. Dopo una vita spesa a combattere la guerra dei sessi a suon di rock, infatti, Pat Benatar dichiara una tregua unilaterale: “Stop using sex as a weapon”, è infatti il ritornello-slogan di un brano che segna però, al tempo stesso, l’avvio della riscossa. Perché il singolo “Sex As A Weapon” (n.10 nelle chart Usa), pur senza strafare, ritrova l’energia hard-rock dei tempi d’oro, fornendo l’assist a Pat per un’altra interpretazione infervorata delle sue. Lasciano a desiderare, semmai, la produzione, ancora troppo patinata, e gli arrangiamenti che peccano dei soliti difetti delmainstream rock americano. Nel complesso, però, il pezzo funziona e, abbinato all’altra chiamata alla armi di “Invincible” (tema del film “The Legend of Billie Jean” con Helen Slater), riporta finalmente Pat nell’arena rock che le compete, nei panni di un’eroina invincibile e incazzata (“We've got the right to be angry”), capace di sfoderare nuovi, sopraffini vocalizzi su sciami di feedback.
Abbandonata la mollezza scipita del predecessore, Seven The Hard Way (settimo disco in sette anni) rimette a lucido una vocalist di razza, capace di destreggiarsi con disinvoltura tra le insidie “operistiche” di “Le Bel Age” (una turgida rock-ballad infarcita di percussioni e voci in overdub), di calarsi nelle fumose atmosfere jazzy di “Walking In The Underground” e nei languori sognanti di “Run Between The Raindrops”, ma anche di tornare a graffiare nei panni della tigre rock in “Big Life” e “Red Vision”, due oscure cavalcate elettriche, indubbiamente potenti, seppur appesantite dai loopdi batteria e da una sovrapproduzione soverchiante.
La vera prodezza è però una nuova cover, di un classico Motown targato Four Tops: “7 Rooms Of Gloom”, affidata all’interpretazione struggente di Pat – tra spoken word e vocalizzi spericolati - e alle chitarre ruggenti di Giraldo, si trasforma in una spettacolare torch-song elettrica.
All’asse ormai consolidato tra Giraldo e Grombacher, si aggiunge l’apporto in pianta stabile di autori che già avevano collaborato con la band negli anni, come Tom Kelly e Billy Steinberg, con indubbi benefici in fase di songwriting (in definitiva, l’unico riempitivo è proprio la ballad finale “The Art Of Letting Go”). E il disco è anche il primo in cui Benatar, da poco diventata madre, non firma neanche una canzone.
Nonostante qualche sporadica scivolata nel kitsch, insomma, Seven The Hard Way ci restituisce la Pat di sempre, quella più sincera ed emozionante, anche se in classifica non andrà oltre il 26° posto.
Allentati i ritmi estenuanti dei sette anni precedenti, Benatar si concede una pausa di tre anni, dedicata alla famiglia. Ma il feeling con le classifiche è rimasto immutato, come conferma il nuovo singolo “All Fired Up” (firmato da Kerryn Tolhurst, ex-Dingoes) che entra tra i primi 20 delle chartUsa e Uk, spopolando anche in Australia. E resta intatta anche la carica della vocalist newyorkese, esaltata da un nuovo hard-rock adrenalinico, lontano, tuttavia, dai suoi migliori standard.
Il successivo album Wide Awake In Dreamland (1988) si assesta complessivamente nel solco di un elettro-rock-pop convenzionale e prevedibile (l’altro singolo “One Love”, “Don’t Wake Away”, “Lift Em On Up”, la title track), cui mancano anche gli uncini melodici del passato per tornare a splendere (ad eccezione, forse, della evocativa ballad “Too Long A Soldier”).
Scarseggiano le idee, insomma, come conferma l’ottusa verbosità di “Let's Stay Together”, che concentra il peggio di un sound che non è mai stato avanguardistico, ma che qui appare davvero irrimediabilmente superato. E anche sul versante del “commentario sociale”, le buone intenzioni si scontrano con una scrittura banale e priva di mordente (la giungla urbana di “Cool Zero”, i nuovi abusi sui bambini di “Suffer The Little Children”, ballata ispirata dal caso di cronaca del rapimento della piccola Melissa).
L’unica nota lieta è rappresentata da una voce che non ha mai perso il suo smalto, ma certo gli autori del disco – inclusa la stessa Benatar – non le confezionano la veste migliore per brillare. È l’inizio di una rapido declino, per colei che era stata la rockeuse per antonomasia del decennio. Un calo di popolarità che proseguirà ininterrottamente fino ai giorni nostri, conducendo a quell’oblio e a quelle distorsioni di cui si parlava in apertura.
Lady sings the blues
Dopo essersi assicurata la pensione con le vendite milionarie del decennio Ottanta, chiuso idealmente con l’antologia Best Shots (1989), Pat Benatar sente di potersi ritagliare nuovi spazi, smarcandosi dai pressanti obblighi dello showbiz. Decide così di realizzare un progetto che evidentemente sognava da sempre contro la volontà dei discografici (non a caso, riceverà una promozione pressoché inesistente da parte della Chrysalis). Un'incursione nel jump-blues e nello swing d'antan. Con una svolta drastica anzitutto nella produzione e negli arrangiamenti: addio alle pompose tastiere degli ultimi dischi, via libera a un approccio più essenziale e diretto, con la complicità dei Roomful Of Blues, una big band con sezione di fiati e un batterista.
Nasce così True Love (1991), cui partecipa ancora il duo Giraldo-Grombacher, sia in fase strumentale, sia in fase di scrittura (i tre inediti). Per gran parte, però, si tratta di un disco di cover, che rivisita con deferenza classici di figure leggendarie del blues, come B.B. King (“Playin' The Cost To Be The Boss”, “I've Got Papers On You”), Albert King (“I Get Evil”), T-Bone Walker (“Evening”), Wynonie Harris (“Bloodshot Eyes”).
Pur non essendo propriamente nelle sue corde (più vicine, semmai, alle tonalità del country), il blues rivitalizza Pat, donandole nuovi stimoli e mettendone in mostra, una volta di più, la straordinaria potenza vocale. Una metamorfosi completa, che trasforma la tediosa pop-singer di fine Ottanta nella scatenata frontwoman di una bar band della Chicago anni Quaranta.
Anche gli inediti non stonano, offrendo lo spunto per nuove performance vocali ad effetto: la vellutata title track (a firma Benatar-Giraldo) con il suo contrabbasso pizzicato e la sua chitarrabluesy, l’energia “jump ‘n’ jive” di “I Feel Lucky”, con fiati e fisarmonica sugli scudi, l’esuberante boogie-woogie “The Good Life”, punteggiato da piano e sax. Nell’edizione in cd per il mercato Usa sarà aggiunto come bonus track lo standard natalizio “Please Come Home For Christmas”, dedicato ai soldati statunitensi impegnati nella Guerra del Golfo.
La coraggiosa scommessa di True Love conferma il sospetto che Pat Benatar valga spesso più delle sue canzoni. E le vendite – n. 37 di Billboard e disco d’oro – si riveleranno decisamente sorprendenti, considerata la limitatissima promozione.
Il ritorno in carreggiata con Gravity's Rainbow (1993), però, è un nuovo passo falso. E il titolo dell’interludio di piano iniziale, “Pictures Of A Gone World”, suona finanche beffardo nel descrivere una realtà ormai acclarata: in ambito rock, Pat Benatar non ha più niente da dire e il suo mondo è ormai tristemente superato. Nei panni di una matura rockeuse demodé, dunque, l’ex-pantera di “Heartbreaker” può tutt’al più crogiolarsi in amare riflessioni sull’arrendevolezza (l’hard-rock melodico del singolo “Everybody Lay Down”), sull’alienazione (la tesa “Disconnected”) e sull’emarginazione (il nuovo commentario sociale ad alto tasso di glucosio della ballata “Somebody's Baby”, che discetta di come un homeless fosse un tempo amato).
Anche sul versante delle ballate intimiste (“Every Time I Fall Back”,“You And I”) il duo Benatar-Giraldo non riesce e restituire un po’ di mordente alla sua musica, che appare impalpabile anche nei numeri reminiscenti dell’esperienza blues, come l’acustica “Rise (Part 2)” e lo swing di “Crazy”.
A complicare la promozione dell’album contribuisce anche la nuova gravidanza di Pat. Fatto sta che le vendite sono un flop e la Chrysalis ne approfitta per congedarla, dopo 14 anni di onorata militanza.
Fuori dallo showbiz
I successivi due album, pubblicati per piccole label come Cmc e Bel Chiasso, non riescono a risollevare la sua popolarità, ma quantomeno consentono a Pat di gestire con maggiore indipendenza la sua attività artistica.
Innamorata (1997) apre a nuove inflessioni folk, latin e soul sulle solite trame rock. Trovano così spazio inconsueti inserti di violini (a cura di Alison Cronell) e di chitarra acustica che, se non altro, donano una prospettiva un po’ più ampia alle sue canzoni. Ne nascono episodi piuttosto accattivanti, come il folkeggiante singolo “Only You” (che sarebbe potuto benissimo uscire da uno dei tanti, acclamati dischi di cantautrici femminili dei 90’s), come la digressione bluesy di “Dirty Little Secrets” o le intense ballate di “Papa's Roses” e “I Don't Want To Be Your Friend (I Want To Be Your Lover)”, che lasciano balenare qualche segno di ripresa sul fronte melodico.
Ma anche quando torna a calarsi nell’arena rock, Pat dimostra di tenere botta (“At This Time”), trascinata anche da un corposo groove soul nella vibrante “River Of Love” e in pieno di stato di grazia vocale nel tour de force di “Strawberry Wine (Life Is Sweet)”.
Altrove, raffiorano vecchi difetti (la verbosità della title track, il manierismo affettato di “Purgatory” e “In This Time”), ma nel complesso Innamorata ci riconsegna una Benatar dignitosa chanteuse di mezza età, capace di anche congedarsi dal pubblico con un inconsueto strumentale acustico (“Gina’Song”).
Dopo una pausa di ben sei anni, riempita solo dalla pubblicazione della tripla antologiaSynchronistic Wanderings (1999) e di un live attribuito al tandem Benatar-Giraldo, il ritorno in studio per Go (2003) riporta a galla i vecchi problemi, quasi “preannunciati” da una terribile copertina kitsch.
Al tempo di Alanis Morissette, Pat cerca di tenersi al passo, tentando perfino un’improbabile emulazione di quel modello, proprio lei che ne aveva coniato uno tutto suo (e ben più potente) tre lustri prima. E il risultato fa acqua da tutte le parti: i brani appaiono asettici, freddi, del tutto privi di quel feeling, che, seppur a tratti fin troppo ruspante, aveva sempre riscaldato le sue canzoni. In ballate pop-rock al cloroformio come “Brave”, “I Won't”, “Have It All” e la title track non c’è uno straccio di hook che possa catturare l’ascoltatore. Persino la stessa voce della Benatar, così “morissettizzata”, passa praticamente sotto traccia, anche laddove vorrebbe lanciarsi in qualche vocalizzo più audace (“Sorry”).
Alla carenza di idee si aggiungono i consueti difetti di sovrapproduzione, che vengono ulteriormente accentuati, facendo affogare ogni minimo spunto in un pantano di chitarre in double tracking, coretti e percussioni ottuse. Qua e là si salva qualcosa: il folkeggiante melò di “Out Of The Ruins”, con Giraldo all’organetto, i ricami chitarristici di “Sorry”, il solo di slide su “In My Dreams”. Ma è decisamente troppo poco per giustificare un album che finisce col rasentare quasi il plagio nella lunga ballad “Brokenhearted”, pericolosamente somigliante all’hit di Jimmy Ruffin “What Becomes Of The Broken-Hearted”.
Nel frattempo, Pat avrà modo di cimentarsi con il cinema (la parte di Jeanette Florescu nel film “Union City” di Marcus Reichert) e la tv (la partecipazione con Giraldo a un episodio della serie di telefilm “Streghe”, intitolato “Lucky Charmed”), oltre a realizzare la sua prima autobiografia, “Between An Heart And A Rock Place”, seguita poi da “Une rockeuse engagée” (firmata con Patsi Bale Cox).
Quindi, nell’estate del 2009, il suggello all’ideale trait d’union con Debbie Harry, con una nostalgicatournée insieme ai Blondie.
Nell’era di rockeuse plasticate come la stessa Morissette, Sheryl Crow, Joan Osborne e compagnia cantante, in cui proliferano truffe del rock’n’roll come Courtney Love (o Avril Lavigne), Pat Benatar è ormai una tigre in gabbia. Troppo avanti negli anni per recuperare la furia degli esordi (e far giustamente mangiare la polvere a tutte loro), ma al tempo stesso incapace di trovare una seconda giovinezza in un songwriting più maturo e riflessivo. Finirà così dimenticata e - come si diceva – ingiustamente etichettata come icona di un “tamarrock” di cui solo a tratti si è fatta interprete, in una lunga carriera costellata, invece, di tanti episodi autenticamente emozionanti e incisivi, che meriterebbero una di quelle rivalutazioni così gradite alla critica revisionista in voga ai nostri giorni. Chi l’ha sempre apprezzata fin dai suoi esordi, invece, può consolarsi snocciolando quei 30 milioni di copie vendute e dando un’occhiata a qualche vecchio video su YouTube. Per giungere alla conclusione che oggi, di femmine rock di questa pasta, non ce ne sono più molte.